mercoledì 28 maggio 2014

Prospettiva Femminile Singolare - dottoressa Marta Morelli

La donna artista e l’uso del corpo nell’arte contemporanea.
Forse non tutti sanno che… le artiste rappresentano una realtà importante nella scena artistica contemporanea. 

Nel corso dei secoli è cambiato il ruolo delle donne anche nell’arte. Dall’essere prevalentemente oggetto di rappresentazione, sono diventate sempre più protagoniste e autrici di rappresentazioni, seguendo percorsi di professionalizzazione, guadagnando visibilità e peso sui mercati dell’arte. Non solo. Le donne sono diventate anche narratrici di queste trasformazioni. Lo testimonia la grande svolta nella storia dell’arte, iniziata negli anni 60-70 del 900. Da allora le storiche dell’arte non solo hanno dato visibilità alle tantissime artiste del passato, ma hanno anche evidenziato la non neutralità del fare arte, il suo essere un vero e proprio campo di battaglia, spesso contro il genere maschile.

Nel corso degli ultimi cinquanta anni, il lavoro delle artiste è passato da una posizione marginale ad una di centrale importanza nella scena internazionale. Basti pensare a Cindy Sherman, artista americana attiva dalla metà degli anni 70, ormai così popolare da essere chiamata da famosi stilisti per realizzare campagne pubblicitarie e il cui lavoro può essere visto come momento di passaggio e congiunzione tra la fase di ricerca sperimentale degli anni 60-70 e le tendenze postmoderne degli anni 80. 

Per secoli le raffigurazioni artistiche hanno mostrato il corpo femminile soltanto attraverso lo sguardo maschile. A partire dagli anni 60, con l’influenza del pensiero femminista, c’è stato un cambiamento di fondamentale importanza. Le artiste hanno sostituito il punto di vista maschile con una visione autodeterminata e auto-centrata. Molte hanno lavorato proprio con la loro fisicità creando performance - azione di un individuo (sia esso l’artista o no) o di un gruppo, in un tempo e in un luogo determinati, che costituisce essa stessa un’opera d’arte - dove si presentano consapevolmente svestite. Per le artiste femministe della prima generazione la nudità rappresenta una forma di autodeterminazione e di libertà. La trasformazione da oggetto di piacere a soggetto emancipato di azione/creazione riflette la mutazione del ruolo della donna nella società di quegli anni.

Nel 1965, ad esempio, l’artista giapponese Shigeko Kubota dipinse pubblicamente su di un supporto orizzontale, accovacciata, guidando un grosso pennello con la vagina (Vagina Painting, 1965, New York).



Photo credit www.artsjournal.com


Più forte e traumatico, il lavoro di Gina Pane, esponente di spicco della body art – termine che indica le forme artistiche realizzate sul corpo, con il corpo e in cui esso è l’opera d’arte - che nel 1972 nel suo appartamento di Parigi, comparve di fronte a un gruppo di invitati completamente vestita di bianco, evocando così l’iconologia della sposa o della vergine. Iniziò a ferirsi la schiena con un rasoio. Il sangue, elemento centrale dell’opera, prese a macchiarle la camicia. L’artista poi si interruppe per giocare brevemente con una palla da tennis, ricominciando in seguito a tagliarsi dopo aver rivolto al pubblico il suo viso. Nel corso della performance, gli spettatori manifestarono una tensione tale da impedirle di ferirsi anche in volto (Le lait chaud, 1972, Parigi). Spine di rose conficcate sotto la carne, lamette, sangue e innocenti bouquet di fiori sono stati gli ingredienti delle successive performance dell’artista.



Photo credit www.flickriver.com


Importante artista che si serve molto della performance è Marina Abramović. In Rhythm 0 (1974, Napoli) l’artista serba si offriva al pubblico sdraiata, a disposizione di chiunque volesse usare su di lei uno degli oltre settanta oggetti posati su un tavolo. L’azione reca in sé la memoria dell’offerta sacrificale, da quella di Abramo e Isacco a quella, molto più reale, del corpo femminile quotidiano, fino a un’indagine nel sadomasochismo. Di fronte alla possibilità di usare violenza che la donna concede, l’altro non riesce a tirarsi indietro; poiché la donna lo sa, non può proporsi solo come vittima ma deve anche, necessariamente, riconoscere la sua non-innocenza.




Photo credit http://artactmagazine.ro/


Nella performance Interior Scroll (1975, New York), che ha fatto da spunto alla famosa pièce teatrale I monologhi della vagina ed è considerata l’emblema dell’arte femminista, Carolee Shneemann entrava “in scena” coperta da un lenzuolo e indossando un grembiule. Si spogliava, saliva su un tavolo e leggeva Cézanne, She Was A Great Painter, componimento da lei stessa scritto. Dopo aver lasciato cadere il libro, lentamente iniziava ad estrarre dalla vagina un rotolino da cui continuava a leggere.



Photo credit www.brooklynmuseum.org


Se negli anni 60-70 il discorso sul genere assumeva toni forti che affermavano il femminile in netta opposizione al maschile, successivamente esso è diventato una riflessione più ampia sull’identità con un ripensamento delle differenze di genere. L’arte delle donne non deve più parlare soltanto di donne. Le artiste, inoltre, iniziano ad indagare l’uso dei media - televisione, pubblicità, stampa - e l’immagine della donna da essi diffusa.

Il lavoro della francese Orlan risente ancora dell’aggressività/violenza tipica delle performance degli anni 60-70, ma si serve di un vocabolario del tutto nuovo e mediatizzato per mostrare la nuova schiavitù del corpo femminile ai dettami della seduzione. La sua settima operazione di chirurgia plastica intitolata Omnipresence (New York, 1993) venne trasmessa in diretta nei maggiori musei del mondo, mentre la sala operatoria, trasformata in un atelier con l’aiuto di stilisti e designer, era gremita di traduttori e cameramen. L’artista, che ha iniziato con l’inseguire tipologie correnti ma anche eterne di bellezza - per esempio quella di Simonetta Vespucci, modella per la Venere di Botticelli - ora si fa progressivamente impiantare protesi facciali deformanti.




Photo credit www.lepeuplequimanque.org


L’uniformarsi ossessivamente a un modello di bellezza fisica - che diventa negli anni 90 un problema tale da far ammalare un’intera generazione di bulimia e/o anoressia – e l’eccessiva attenzione all’apparire nella società dell’immagine degli ultimi decenni sono alcuni dei temi affrontati da Vanessa Beecroft. Nelle sue opere (ad esempio VB45, 2001) modelle nude o vestite con pochi capi e accessori d’alta moda, spesso creati appositamente, rappresentano un modello di bellezza omogeneo che risponde a precisi canoni fisici, sociali e generazionali.



Photo credit www.artnet.com


Abbiamo assistito a un progressivo mutamento del ruolo e dell’immagine della donna – e dell’artista - nella società negli ultimi cinquanta anni: la sua emancipazione attraverso la liberazione del corpo, il riflettere sul concetto di identità oltre all’affermazione dell’appartenenza ad un genere, la crescente nonché eccessiva attenzione alla bellezza e alla forma fisica e all’apparire. 

Grazie allo stretto legame tra società/contesto e cultura in esso e da esso prodotta, parallelamente alla società è cambiato il modo di fare arte e l’uso del corpo che le artiste hanno fatto: dalla rabbia, l’aggressività/violenza e la denuncia delle artiste degli anni 60-70 ad una sempre maggiore attenzione al modo in cui i mass media rappresentano la donna negli anni 80-90 a, infine, l’accento sulle ossessioni (maggiormente) femminili.

Dopo aver trattato del lavoro di alcune tra le artiste contemporanee più significative, in chiusura dell’articolo viene da porsi una domanda: oggi la donna - e il proprio corpo - è realmente più libera rispetto a cinquanta anni fa? O gli omologanti canoni di bellezza, la rappresentazione che ancora i media danno della donna, i ruoli che le assegnano in televisione come nella vita di tutti i giorni non hanno, invece, creato nuove prigioni?



Dottoressa Marta Morelli
marta.morelli@yahoo.it

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